Con la sentenza n. 22323/2016, la Corte di Cassazione ha definito come discriminatorio il licenziamento del dipendente disposto per un giustificato motivo oggettivo ritenuto insussistente, mentre le effettive ragioni del recesso risiedono nel precedente ricorso al giudice del lavoro, da parte dello stesso lavoratore, per far rimuovere uno stato di dequalificazione professionale.
Sul punto, la Cassazione osserva che il divieto di licenziamento discriminatorio, alla luce dei principi costituzionali e della giurisprudenza comunitaria, è suscettibile di interpretazione estensiva, ricomprendendo, oltre alle ipotesi tipizzate dal legislatore, anche quella del licenziamento per ritorsione o rappresaglia.
In tale ultimo nucleo di motivi vietati, aggiunge la Cassazione, si iscrive l’ingiusta e arbitraria reazione dell’azienda a un comportamento legittimo del lavoratore.
Inoltre, nella pronuncia in esame si precisa che, al fine di poter ritenere il licenziamento discriminatorio, il motivo ritorsivo deve essere stato l’unica ragione determinante, precisando che la prova relativa a carico del lavoratore può essere raggiunta anche per presunzioni, come conseguenza ragionevolmente possibile di un fatto noto.