In materia di ICI/IMU/TASI sono frequenti i dubbi sul corretto trattamento delle aree fabbricabili.
L’art. 36 co. 2 del DL 223/2006 (conv. L. 248/2006) stabilische che, ai fini dell’applicazione dell’IVA, dell’imposta di registro, delle imposte sui redditi e dell’ICI, un’area è considerata fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale (PRG o PGT) adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Con riferimento all’approvazione delle varianti al PRG da parte dei Comuni, la C.T. Reg. Roma 22.1.2016 n. 338/38/16 ha ritenuto che la semplice adozione della variante è idonea a considerare ai fini dell’ICI edificabili i terreni qualificati in precedenza come agricoli.
La C.T. Prov. di Torino, con la sentenza 669/8/15, invece, ha stabilito che uno strumento urbanistico restituito dalla Regione per vizi insanabili non può costituire in capo al Comune titolo per trarre vantaggi fiscali nel periodo di vigenza dello strumento stesso. Da qui l’importante affermazione secondo cui lo strumento urbanistico generale che qualifica come fabbricabile un terreno deve essere adottato dal Comune correttamente, senza la presenza di alcun vizio insanabile.
Immobili “merce” invenduti delle imprese immobiliari di costruzione – Esenzione IMU – Profili di incostituzionalità della disciplina ante 2014 (C.T. Prov. Pescara 22.12.2015 n. 901/1/15)
La C.T. Prov. di Pescara, nella sentenza 22.12.2015 n. 901/1/15, ha affermato che i Comuni devono rimborsare l’IMU versata per gli anni 2012 e 2013 relativamente agli immobili “merce” delle imprese, ossia degli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa.
A decorrere dall’1.1.2014, gli immobili “merce” sono esenti dall’imposta municipale fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati (artt. 2 co. 1 e 2 lett. a) del DL 31.8.2013 n. 102).
Secondo i giudici, con il DL 102/2013 il legislatore avrebbe “abrogato tacitamente la norma previgente” e conseguentemente i Comuni devono rimborsare quanto versato negli anni 2012 e 2013.
Enti sportivi dilettantistici – Somme corrisposte per spese di pubblicità – Deducibilità integrale nell’esercizio (Cass. 23.3.2016 n. 5720)
Secondo la sentenza Cass. 23.3.2016 n. 5720, sono deducibili le somme erogate ad un ente sportivo dilettantistico affinché questi esponesse il marchio dell’impresa sulle proprie divise in occasione di eventi.
Tali versamenti si considerano spese di pubblicità deducibili interamente nell’esercizio a prescindere dall’effettivo ritorno in termini di ricavi.
In applicazione dell’art. 108 del TUIR, in assenza di un nesso tra l’attività sponsorizzata e quella svolta dallo sponsor, le somme corrisposte non rientrerebbero tra le spese di pubblicità e pertanto non potrebbero essere dedotte integralmente. Tuttavia, rileva la Corte, ai sensi dell’art. 90 co. 8 della L. 289/2002, il corrispettivo in denaro o in natura in favore di determinati soggetti (tra i quali rientrano le società e associazioni sportive dilettantistiche), di importo annuo non superiore a 200.000,00 euro, costituisce, per il soggetto erogante, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti di quest’ultimo mediante una specifica attività del beneficiario.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Condizioni di legittimità (Cass. 8.3.2016 n. 4509)
Con la sentenza 4509/2016, la Corte di Cassazione ha stabilito che, qualora un datore di lavoro intenda licenziare per giustificato motivo oggettivo un dipendente, dovrà dimostrare non solo l’avvenuta soppressione del posto di lavoro fino a quel momento occupato dal lavoratore, ma anche che non vi è la possibilità di impiegarlo in una posizione equivalente e di aver proposto al dipendente una dequalificazione, senza aver ottenuto il consenso dell’interessato, qualora vi siano posti disponibili in mansioni inferiori alle precedenti. In relazione all’obbligo di repechage, l’imprenditore è, quindi, onerato dall’obbligo di dimostrare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al lavoratore, prima di licenziarlo e senza averne ottenuto il consenso, la possibilità di impiegarlo in mansioni inferiori. Il giudice potrà considerare legittimo il licenziamento solo se il datore di lavoro abbia correttamente assolto a tale dovere di ricollocazione, sempre che la riorganizzazione aziendale da cui consegue la soppressione del posto sia effettiva.
Attualmente la legittimità di un accordo per un inquadramento inferiore ai fini della conservazione del posto di lavoro non trova più il suo fondamento solo in un consolidato orientamento della giurisprudenza, ma è stato consacrato nel nuovo co. 6 dell’art. 2103 c.c., introdotto dal DLgs. 81/2015. L’accordo è valido purché sia stipulato in una delle sedi protette individuate dall’art. 2113 c.c. o davanti alle commissioni di certificazione, per cui non è più ammissibile un consenso informale al demansionamento, che in precedenza la giurisprudenza riteneva sufficiente se finalizzato a evitare la risoluzione del rapporto.
Notifica avvenuta in plico chiuso tramite servizio postale – Contestazione del contenuto della busta (Cass. 18.3.2016 n. 5397)
Cass. 18.3.2016 n. 5397 ha stabilito che, se la cartella di pagamento, come ammette l’art. 26 del DPR 602/73, è notificata a mezzo posta, ai fini probatori è sufficiente che l’Agente della riscossione produca l’avviso di ricevimento.
Non è necessario che lo stesso dimostri che il plico spedito in busta chiusa conteneva proprio la cartella di pagamento.
Ove sia il contribuente a eccepire la discordanza tra l’atto che avrebbe dovuto essere notificato e quello che, in concreto, è stato rinvenuto nella busta, spetta al medesimo fornire la relativa prova.
La Cassazione si discosta quindi da un diverso orientamento, secondo cui l’onere della prova sarebbe spettato all’Agente della riscossione (Cass. 11.2.2015 n. 2625).
Decorso dei sessanta giorni dalla consegna del “PVC” – Rilevanza della “emissione” dell’accertamento (Cass. 17.3.2016 n. 5361)
I sessanta giorni entro cui, a pena di nullità, l’avviso di accertamento non può essere emesso qualora, in sede di controllo sostanziale, sia stato formato il verbale di constatazione, devono essere computati non riferendosi alla data di notifica dell’atto ma di emissione (Cass. 17.3.2016 n. 5361).
Infatti, è con la emissione/sottoscrizione dell’accertamento che il provvedimento viene ad esistenza, posto che la notifica ne integra solamente l’efficacia.
Nello stesso senso si era pronunciata Cass. 28.5.2015 n. 11088.
Imminenza del decorso dei termini di decadenza per l’accertamento (Cass. 16.3.2016 n. 5137)
Cass. 16.3.2016 n. 5137 ha ribadito che l’imminenza circa il decorso del termine decadenziale per l’accertamento non è una ragione di particolare e motivata urgenza tale da consentire l’emanazione anticipata dell’accertamento medesimo (quindi l’emissione dello stesso prima dello spirare di sessanta giorni dalla consegna del verbale di constatazione).
Tuttavia, i giudici precisano che la particolare e motivata urgenza, anche nella fattispecie descritta, può sussistere se la necessità di notifica celere dell’accertamento non dipende da carenze organizzative interne all’ente impositore.
Mancato invio della prima comunicazione al contribuente – Effetti (Cass. 9.3.2016 n. 4591)
Ad avviso di Cass. 9.3.2016 n. 4591, nel controllo formale della dichiarazione (art. 36-ter del DPR 600/73) la prima comunicazione al contribuente (di cui al comma 3) può essere omessa a discrezione del funzionario, siccome l’obbligatorietà riguarda il vero e proprio avviso bonario (comma 4), ove vengono richieste le maggiori imposte.
Trattasi di una tesi non conforme al paradigma normativo, siccome il legislatore prevede che il primo invito “è” e non “può essere” notificato al contribuente.
Ove si condividesse la tesi della Cassazione, verrebbe vanificata la ratio del contraddittorio, che serve ad un’eventuale archiviazione della pratica ancor prima dell’avviso bonario.
Antieconomicità delle operazioni aziendali – Valutazione – Orientamenti giurisprudenziali
Sulla base dell’orientamento della Corte di Cassazione è possibile individuare alcuni elementi in presenza dei quali gli uffici dell’Agenzia delle Entrate possono sindacare la congruità dei corrispettivi delle transazioni, in presenza di comportamenti antieconomici.
La Corte di Cassazione 19408/2015 ha, ad esempio, ritenuto corretto l’operato della società, consistente nella rivendita di auto usate a prezzi inferiori a quelli di acquisto, affermando che “la incontroversa sopravvalutazione dei veicoli usati acquisiti in permuta dalla contribuente andava inserita nel contesto complessivo dell’operazione”.
Alla luce dell’art. 5 co. 2 e 3 del DLgs. 147/2015, inoltre, ad avviso dell’Autore, occorre, nel sindacato di congruità, ricercare ulteriori elementi che consentano di accertare un corrispettivo della transazione diverso da quello contabilizzato e dichiarato. Per contro, la Cass. 13468/2015 ha affermato che, una volta accertata l’antieconomicità del comportamento del contribuente, l’ufficio non sia tenuto a fornire ulteriori riscontri.
Infine, l’antieconomicità dei comportamenti delle imprese può legittimare l’accertamento induttivo del reddito anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette; secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, infatti, la contabilità può essere considerata inattendibile se confligge con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente (da ultimo, cfr. Cass. 9968/2015 e 3279/2016).
Sanzioni amministrative -Violazioni commesse in ambito societario – Responsabilità (Cass. 11.3.2015 n. 4775)
Cass. 11.3.2015 n. 4775 ha sancito che, in ragione dell’art. 7 del DL 269/2003, le sanzioni amministrative tributarie possono essere irrogate solamente nei confronti della società con personalità giuridica, e non nei confronti, ad esempio, degli amministratori.
Quindi, è illegittimo l’atto di contestazione della sanzione notificato al consulente fiscale della società, quand’anche sia dimostrato che egli, in concreto, era amministratore di fatto.
Dalla decisione sembra emergere che occorre sempre applicare l’art. 7 del DL 269/2003 (che individua nella società il solo soggetto responsabile), non avendo rilievo che il consulente, magari, si sia reso partecipe della condotta illecita.