Le disposizioni contenute all’art. 23 del DLgs. 151/2015 introducono misure semplificative per quanto riguarda l’utilizzo in azienda di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza dei lavoratori. In estrema sintesi, l’uso di tali strumenti non è più vietato di principio, ma consentito per esigenze organizzative o produttive, sicurezza sul lavoro e tutela del patrimonio aziendale.
In particolare, la riscrittura dell’art. 4 della L. 300/70, avvenuta per volontà del citato decreto attuativo del Jobs act, ridimensiona il divieto assoluto all’unica ipotesi in cui l’utilizzo degli impianti abbia il fine “esclusivo” di controllare l’attività dei lavoratori. In base alla nuova formulazione, dunque, l’utilizzo di impianti e apparecchiature di controllo non è più un’eccezione a una regola (il divieto), ma una facoltà del datore di lavoro pur tuttavia subordinata all’osservanza di una specifica procedura. Tale procedura è, in via di principio, di tipo sindacale e, se l’accordo non è raggiunto con le rappresentanze sindacali, l’azienda può ricorrere all’autorizzazione ministeriale.
Tuttavia, la nuova disciplina stabilisce altresì che l’accordo sindacale e l’autorizzazione non sono richiesti per l’adozione di strumenti utilizzati dal lavoratore al fine di prestare attività lavorativa (computer, tablet, smartphone, eccetera) e di strumenti di registrazione di entrate e uscite. Infine, con una modifica al DLgs. 196/2003, la riforma ha previsto una specifica sanzione per l’inosservanza della nuova disciplina sugli impianti di controllo, prevedendo (salvo che il fatto non costituisca più grave reato) un’ammenda da 154 a 1.549 euro oppure l’arresto da 15 giorni a un anno, con applicazione di entrambe le pene nei casi più gravi e ferma restando la possibilità, per il giudice, di quintuplicare l’ammenda (facendola quindi arrivare a 7.745 euro) qualora dovesse ritenerla inefficace negli importi ordinari, sulla base delle condizioni economiche del datore di lavoro.