Con la sentenza 4509/2016, la Corte di Cassazione ha stabilito che, qualora un datore di lavoro intenda licenziare per giustificato motivo oggettivo un dipendente, dovrà dimostrare non solo l’avvenuta soppressione del posto di lavoro fino a quel momento occupato dal lavoratore, ma anche che non vi è la possibilità di impiegarlo in una posizione equivalente e di aver proposto al dipendente una dequalificazione, senza aver ottenuto il consenso dell’interessato, qualora vi siano posti disponibili in mansioni inferiori alle precedenti. In relazione all’obbligo di repechage, l’imprenditore è, quindi, onerato dall’obbligo di dimostrare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al lavoratore, prima di licenziarlo e senza averne ottenuto il consenso, la possibilità di impiegarlo in mansioni inferiori. Il giudice potrà considerare legittimo il licenziamento solo se il datore di lavoro abbia correttamente assolto a tale dovere di ricollocazione, sempre che la riorganizzazione aziendale da cui consegue la soppressione del posto sia effettiva.
Attualmente la legittimità di un accordo per un inquadramento inferiore ai fini della conservazione del posto di lavoro non trova più il suo fondamento solo in un consolidato orientamento della giurisprudenza, ma è stato consacrato nel nuovo co. 6 dell’art. 2103 c.c., introdotto dal DLgs. 81/2015. L’accordo è valido purché sia stipulato in una delle sedi protette individuate dall’art. 2113 c.c. o davanti alle commissioni di certificazione, per cui non è più ammissibile un consenso informale al demansionamento, che in precedenza la giurisprudenza riteneva sufficiente se finalizzato a evitare la risoluzione del rapporto.